CAPODISTRIA
REPORTAGE
DA UN PORTO
DI CONFINE
Andrea Bottalico
REPORTAGE
DA UN PORTO
DI CONFINE
Andrea Bottalico
La linea che separa l’Italia
dalla Slovenia è un tratto impercettibile. Il pullman l’attraversa come se
niente fosse del passato, dopo aver percorso una sopraelevata che costeggia la
zona industriale di Trieste. Dal finestrino scorrono i magazzini, la ferriera,
i bacini di carenaggio, il groviglio di semoventi e la ragnatela intermodale
che lega le rotte marittime ai binari protesi verso l’interno. Poi il paesaggio
subisce una metamorfosi improvvisa: adesso è ondulato, ricoperto di boscaglia e
di pompe di benzina con tabaccherie annesse, prese d’assalto da chi vive al di
qua per risparmiare sul pieno e sulle stecche di sigarette. Quasi cambia anche
la luce, riflessa sulle facciate bianche delle case e sui tetti spioventi
colore marrone.
Guardo la cartina: sono
nell’anticamera della penisola istriana, quella dell’esodo, della “bruciante
esperienza della perdita”, come ha scritto
qualcuno. E dal finestrino
vedo avvicinarsi Capodistria, Koper in lingua slovena, capoluogo della
Primorska, il Litorale, la regione più occidentale del paese lungo la costa
meridionale del golfo di Trieste. Ecco l’altra porta d’accesso dell’alto
Adriatico, il varco all’apice del Mediterraneo, territorio sloveno dall’indipendenza
del ’91, in passato amministrata dalla Repubblica Socialista Federale di
Jugoslavia. Mi dirigo verso l’unico porto del paese, laggiù in fondo. Un porto
di confine, appunto, con lo status di Zona Economica Speciale. A quattro miglia
nautiche da Trieste, distante soltanto dodici chilometri in linea d’aria, Koper
le sta così appiccicata da poter sembrare una sola entità. In effetti, a prima
vista sembrerebbe un unico grande porto, meglio definito dagli addetti ai
lavori come un nodo della “Core transport network” all’interno del Corridoio
Mediterraneo, la “spina dorsale” tra Gibilterra e l’Ucraina.
Eppure gli interessi
reciproci e la logica della concorrenza li rendono distanti, come porti in
prossimità situati in stati diversi. Le navi che transitano dal canale di Suez
con la merce diretta verso l’Europa centrale e orientale toccano prima l’uno,
poi l’altro, poi l’altro ancora, svuotandosi man mano su ogni banchina, da
Rijeka a Venezia, secondo accordi, gerarchie, profondità di fondali, itinerari
e strategie commerciali ben precise. Venezia intanto è alle prese con il
progetto di un terminal off-shore per i container trasportati dai giganti del
mare, proprio mentre l’eccesso di disponibilità di stiva delle meganavi provoca
il crollo del prezzo dei noli e la crisi del trasporto globale incarnata dal
fallimento di Hanjin, il settimo vettore marittimo al mondo.
I porti di tre stati
dell’alto Adriatico nel frattempo si contendono mercati, traffici e bacini di
utenza, malgrado una discrepanza del costo del lavoro pari al trenta per cento
tra Italia, Slovenia e Croazia. Circa milletrecento miglia di distanza da porto
Said offrono la possibilità alle compagnie di evitare tutto il giro verso il
nord Europa e di risparmiare duemila miglia di navigazione. Guardare la cartina
aiuta a chiarire la posizione strategica di questa lingua di terra per i
traffici marittimi attraverso la Slovenia. Il cuore dell’Europa è servito anche
da Koper, che nel 2015 ha movimentato ventuno milioni di tonnellate tra merce
varia, container, rinfuse e automobili. Proprio quelle che intravedo dal
finestrino, in lontananza, man mano che mi avvicino, stoccate in un piazzale di
sessantamila metri quadrati. File di macchine fabbricate in Germania, Austria e
Ungheria giungono qui su rotaia. In un anno il porto di Koper ne ha movimentate
cinquecentomila.
I condizionatori della
stazione appagano il riposo di due anziani. Chiedo a un uomo con l’uniforme da
autista e i baffi folti se parla in italiano. Annuisce. Allora gli domando di
tradurmi i due titoli delle notizie in prima pagina riportate fuori
all’edicola. Niente di che, risponde. Un tizio ad Ancarano ha vinto parecchi
soldi alla lotteria e i dipendenti di Luka Koper hanno ripreso a lavorare. Nei
primi giorni di luglio, una protesta spontanea contro i programmi di
privatizzazione del porto ha bloccato il traffico delle merci paralizzando lo
scalo. Prima di salire verso la piazza che conduce al centro storico passo
davanti ai cancelli d’ingresso. Qualche camion entra ed esce dal varco, due
autotrasportatori discutono in una lingua ignota, qua e là sono rimasti alcuni
segni della protesta, come uno striscione con sopra scritto Luke ne damo. L’ha
urlato una folla di uomini in salopette blu e maglietta arancione da qua fuori
e nella piazza principale della città. «Dovolij! Luke ne damo». Tradotto, più o
meno, significa: «Basta! Il porto non si tocca», è l’addetto alla sicurezza a
dirmelo, mentre controlla i tesserini di un gruppo di camionisti. Già che ci
sono gli chiedo se posso entrare, sapendo quale sarà la risposta.
La città dall’alto mostra il
suo volto originario: un piccolo nucleo di vecchie abitazioni di pescatori e
vicoli stretti formano un isolotto circondato un tempo da saline e adesso dal
porto, che si sviluppa lungo tutta la zona nordorientale bonificata a partire
dalla metà degli anni Cinquanta. Una targa accenna al “popolo crocefisso dal
comunismo titino” a due passi dalla centrale piazza Tito, dei manifesti
riportano la scritta “Vstala Primorska” (Il Litorale si è levato). Sul
lungomare si prepara la sesta edizione della festa Kalamarov. Il menù propone
frittura di calamari, insalata di calamari, risotto con i calamari e calamari
alla piastra, poi dal palco suoneranno i Mambo Kings e il trio Teci Teci. La
tensione dei giorni scorsi sembra essersi attenuata ma la temperatura no. La
semplice bellezza della città vecchia è accerchiata da banchine e magazzini di
stoccaggio.
Con la sua area portuale di
due milioni e settecentomila metri quadrati, Capodistria è un porto con una
città, non una città con un porto. Questo hub multipurpose nasce nel 1957, tre
anni dopo la spartizione dei territori sancita dal memorandum di Londra. Luka
Koper è anche il nome della società per azioni che gestisce tutto lo scalo,
proprietà per due terzi dello stato sloveno. Al porto di Koper si lavora tutti
i giorni dell’anno, ventiquattr’ore su ventiquattro. Dopo la gestione di un
presidente del consiglio di amministrazione arrestato a Santo Domingo per
corruzione e abuso d’ufficio, l’attuale presidente è un ex portuale apprezzato
dai dipendenti. Gli oltre tremila metri di banchine e le operazioni di sbarco e
imbarco si possono osservare da un belvedere della città vecchia che affaccia
sul mare e sui dodici terminal suddivisi per specializzazione merceologica.
Quasi si può vedere il volto del gruista di Paceco, ad almeno cinquanta metri
di altezza dal suolo, intento ad agganciare lo spreader sopra un container da
una Maersk ormeggiata lungo la banchina. Il lavoro nel porto di Capodistria
viene svolto da un migliaio di dipendenti statali di Luka Koper, inquadrati e
tutelati da un contratto collettivo e da due sindacati. Poi ce ne sono altri
mille che lavorano attraverso le trentasei imprese esterne che forniscono
manodopera. Quanto ai dipendenti di Luka Koper, il miglioramento delle
condizioni di questa forza lavoro è stato raggiunto dopo anni di conflitti noti
agli ambienti portuali. Un gruista di Luka Koper gode di ampi margini negoziali
e guadagna molto più della paga media di un dipendente statale in Slovenia. Per
tale ragione, nel paese esiste un luogo comune che considera i portuali come
dei privilegiati, ignorando il genere di lavoro che svolgono e i ritmi estremi
ai quali sono sottoposti.
Quanto agli altri, si tratta
delle “ombre del porto”, come le ha chiamate un sindacalista. Circa mille
portuali che lavorano attraverso l’intermediazione delle imprese private,
lavoratori stranieri provenienti dai paesi dell’ex Jugoslavia. A differenza dei
dipendenti di Luka Koper questi lavoratori sono sotto perenne ricatto dei
datori di lavoro, guadagnano meno della metà, ma più di quello che
guadagnerebbero nei loro paesi di provenienza. In molti vivono nelle camere
affittate dagli stessi datori di lavoro e riescono a spedire i soldi alle
famiglie nei paesi d’origine una volta al mese. Il sistema di pagamento prevede
una paga fissa e il resto calcolato a cottimo, ma lo stipendio non gli viene
corrisposto del tutto, perché è in parte intascato dai funzionari
dell’amministrazione e dagli stessi datori. In altre parole, nel porto di Koper
vige una sorta di caporalato in cui circolano mazzette. Al sindacato lo sanno
bene, ma è difficile contrastare questo meccanismo consolidato. Dicono che
funzioni così da almeno vent’anni, dall’avvento dell’economia di mercato in un
paese che fino al giorno precedente apparteneva alla Repubblica Socialista di
Tito. E dal momento che gli azionisti della società che gestisce lo scalo pretendevano
profitto, la strategia a un certo punto è stata quella di esternalizzare una
parte del ciclo operativo portuale a imprese che offrivano manodopera
flessibile a prezzi stracciati. Sta di fatto che questi lavoratori delle
imprese private non si sono fatti vedere fuori ai cancelli nel corso del
blocco. Sono stati piuttosto i dipendenti di Luka Koper ad aver iniziato la
protesta nei confronti dello stato sloveno. A spiegarmi i dettagli della
faccenda è un uomo della Konfederacija Sindikatov che parla in italiano e che
mi dà appuntamento non lontano da piazza Tito. Non appena ci sediamo mi dice
subito che si è trattato di una protesta e non di uno sciopero, dal momento che
il blocco delle operazioni non è stato né guidato né organizzato dai sindacati,
ma è nato in maniera spontanea poche ore prima dell’assemblea degli azionisti
di Luka Koper. Quella mattina i lavoratori si sono tolti i guanti e hanno
piazzato i mezzi meccanici davanti ai cancelli, paralizzando nel giro di poche
ore lo scalo, con ricadute sull’intera rete ferroviaria. Il blocco è durato più
di tre giorni e il danno è stato inevitabile, almeno due milioni di euro allo
scalo e circa settecentomila euro di introiti mancati alle ferrovie slovene.
La contestazione dei
portuali di Koper è nata dall’opposizione ai programmi di privatizzazione del
governo e alla svendita ai privati. La miccia che ha innescato la protesta è
stata la scoperta di un carteggio tra il ministro delle infrastrutture e il
sottosegretario alle finanze, in cui emergono dati fasulli sullo stato
finanziario di Luka Koper per motivare la sostituzione dei revisori e il
conseguente progetto di smembramento. Il governo in tal modo intendeva usare le
indicazioni consigliate dalla holding statale slovena, vale a dire creare
un’autorità portuale cui spetterebbe il ruolo di assegnare concessioni di
terminal agli investitori privati. Da qui la protesta. Alla fine, il blocco dei
cancelli ha ottenuto le dimissioni del direttore dell’holding statale slovena,
il ritiro della proposta di sostituzione dei revisori e l’incontro con il primo
ministro.
Da allora non è cambiato
niente. In ballo, allo stesso tempo, c’è un programma di sviluppo che prevede
investimenti per quasi trecento milioni di euro in infrastrutture e la
questione del raddoppio della linea ferroviaria da Capodistria a Divaccia,
trentatré chilometri di binari che portano alla stazione da cui passa il
Corridoio Mediterraneo definito dal regolamento europeo. Il raddoppio della
linea ferroviaria è un progetto d’importanza vitale per il porto di Koper,
spiega l’uomo della Konfederacija: «Si tratta di un investimento pari a un
miliardo e quattrocento milioni di euro, che lo stato sloveno ha chiesto ai
privati, i quali hanno risposto in tal modo: noi ci mettiamo i soldi, però tu
ci devi dare il porto. Questo è il punto – mi dice prima di congedarsi –: lo
stato vuole uccidere le galline ma non ci sono più uova».
Da una spiaggia affollata
ancora sono visibili le operazioni di sbarco e imbarco. Mi sdraio al sole, tra
le urla dei bambini e i tuffi da una piattaforma in un’acqua tutto sommato
limpida, mentre una mano della gru Paceco sgancia l’ennesimo contenitore sulla
ralla a piazzale. Resto a guardare la divisione degli spazi a ridosso della
diga foranea, poi mi volto verso il mare aperto dando le spalle allo scalo. Le
navi vanno e vengono da questo porto di confine. Quella che ore prima stava in
banchina ha mollato gli ormeggi, ci passa davanti e prende il largo. (andrea
bottalico)
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