sabato 25 marzo 2017

REPORTAGE DAL PORTO DI ANVERSA - ANDREA BOTTALICO

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Sotto attacco dell’Unione. Le liberalizzazioni europee viste dal porto di Anversa

di Andrea Bottalico

Il porto di Anversa è situato al centro del cosiddetto range settentrionale che parte da Le Havre e arriva ad Amburgo passando per Rotterdam.



Appartenente alla regione del Delta del Reno e della Schelda, dista circa cento chilometri dal Mare del Nord, è proteso verso l’interno e, per chi proviene dal Mediterraneo, può risultare ostile a prima vista, difficile da inquadrare a causa della sua natura fluviale, con banchine e chiatte ormeggiate lungo i canali, ponti mobili e chiuse che non agevolano l’orientamento e che rendono Anversa un’opera d’ingegneria idraulica priva di montagne piuttosto che una città portuale qualunque. Le navi, in particolare le portacontainer di grandi dimensioni, per entrare e uscire sono condizionate dalla marea del fiume e dalla profondità del lungo tratto che dall’estuario penetra fin dentro la Schelda occidentale.


Bisogna varcare una sorta di confine, girovagare a vuoto per qualche settimana, osservare una mappa per credere di aver capito qualcosa e infine ammettere di non aver capito ancora niente. Fermandosi in un punto qualsiasi dei dodicimila ettari di area portuale può capitare di ritrovarsi soli tra navi in transito, magazzini e depositi di stoccaggio delle merci, di fronte a pareti di container accatastati che sbarrano la vista da ogni lato, con la gola inaridita dalla puzza di aceto e il timore di andare oltre quelle ciminiere in lontananza che cacciano fuoco a intervalli costanti. Il fumo delle piattaforme di quattro raffinerie lungo il corso d’acqua si mescola all’austero paesaggio fiammingo, alla foschia e al fetore di gasolio proveniente dai siti di produzione delle compagnie chimiche. Si cammina nel fango in certi tratti, lungo cigli di stradoni concepiti per gli autoarticolati che ti passano di fianco rompendo il silenzio, smuovendo l’aria e le pozzanghere. Altrimenti c’è la pista ciclabile, che è sempre meglio di niente. Poi un treno appare dal nulla, come un’allucinazione tra le croci di Sant’Andrea, attraversando lo stradone semideserto anticipato da lunghe sirene.

Aggirandomi al suo interno, sono giunto alla conclusione che il problema non è cosa raccontare di questo porto ma come raccontarlo: talvolta più guardi e meno vedi il profilo basso di chi muove l’economia globalizzata da questo punto sulla mappa. Frasi ripetute durante i convegni come one smooth flow e seamless movement of goods nascondono ciò che soggiace dietro precisi modelli di business: il più grande polo petrolchimico d’Europa, duecento milioni di tonnellate di merce, tra queste dieci milioni di tonnellate d’acciaio e prodotti in metallo, ottocentomila veicoli, dieci milioni di Teu movimentati l’anno. Il porto di Anversa è un hub logistico connesso all’hinterland europeo. Un buon cinquanta per cento del milione e tre di tonnellate di zucchero esportato annualmente dall’Europa passa per queste banchine. E poi la frutta, la carta, il legname, i beni di consumo, le rinfuse liquide, i prodotti intermedi, manufatti, minerali, semilavorati, agricoli, farmaceutici. 

Al porto di Anversa “tutto è possibile”, come recita lo slogan. È possibile che il flusso regolare e la circolazione di beni senza soluzione di continuità declamati nei convegni siano interrotti da uno sciopero che, come quel gioco che facevamo da bambini, paralizza tutto all’improvviso: il vero terrore degli stakeholder

È possibile che alle pale eoliche, agli antichi mulini a vento e alla retorica sulla sostenibilità delle multinazionali si affianchi la centrale di Doel, nei pressi del confine con l’Olanda, a ridosso di un villaggio i cui abitanti sono stati sgomberati per quei reattori così vicini alle loro case e per l’espansione dell’area portuale verso nord-ovest, come mostra un documentario. A causa della centrale, per i cittadini di Anversa è possibile ottenere pillole di iodio gratis in farmacia, ma è possibile anche far finta di niente, infischiarsene dell’esistenza di quella fortezza nel mezzo del porto industriale solcato da stormi che gracchiano tra vaste aree desolate, in cui è possibile giocare a golf con vista sulla centrale termonucleare.

In questo inverno che sembra non finire mai la città dei diamanti resta a guardare dalla riva destra, finora si è rivelata come qualcosa a metà strada tra le prime pagine dell’Austerlitz di Sebald e una serie di bar portoghesi. Distesa a semicerchio lungo il fiume che all’improvviso vira verso la foce, è congestionata dai camion che fanno la spola attraverso le principali arterie stradali. I container impilati accerchiano un’antica chiesetta nei pressi di un’area di stoccaggio sulla riva destra del fiume, ma a ben vedere accerchiano me mentre mi aggiro nei dintorni di banchine che attendono navi – e mai viceversa. Dalla posizione in cui mi trovo riesco a scorgere Deurganckdock e le Gooseneck sulla sponda opposta, quarantuno gru di banchina “a collo d’oca” del terminal container dedicato di MSC, la seconda compagnia marittima più importante al mondo, il cui armatore, originario di Sorrento, ha il quartier generale in Svizzera – un paese senza mare.

Dopo la bancarotta della coreana Hanjin, le fusioni e le acquisizioni, tre grandi alleanze governano l’industria globale del container, formando di fatto un oligopolio. MSC è alleata con il gruppo Maersk, la compagnia marittima leader su scala globale, che nel 2016 ha chiuso con una perdita netta di quasi due miliardi di dollari: un calo relativo della redditività che nasconde la cifra assoluta di una crisi sistemica. L’aumento progressivo della dimensione delle navi per rincorrere le economie di scala ha avuto come conseguenza la sovraccapacità di stiva e il crollo dei noli, ragion per cui le compagnie viaggiano in perdita e scaricano gli oneri lungo tutta la catena logistica del trasporto. 

La nave più grande entrata nel porto di Anversa finora è stata la Zoe da oltre diciannovemila Teu della MSC, accolta in pompa magna dagli osservatori entusiasti. Ma è sufficiente fare due chiacchiere con quelli del ciclo operativo al terminal container di Deurganchdock, che queste navi le lavorano, per rendersi conto di come stanno realmente le cose. Le mega-navi impongono pressioni enormi, flessibilità e ritmi mai visti prima, perché una nave ferma è una nave che non genera profitto e con l’aumentare delle dimensioni sono diminuiti gli attracchi a parità di volumi. Alla contrazione dei tempi va aggiunta la conseguente congestione del terminal e dell’area retroportuale. Gli addetti ai lavori illustrano dati e classifiche aggiornate sulle performance, ma in pochi accennano ai costi sociali dell’industria marittimo-portuale. Un libro uscito di recente affronta queste tematiche.

Di ritorno dalla riva destra passo per la piazza centrale, davanti alla statua in bronzo di Meunier che li rappresenta e che guarda verso la Schelda come se la sfidasse. Molte cose sono cambiate per i lavoratori del porto di Anversa, gli “organizzatori dell’improvvisazione” come diceva qualcuno. Quella statua la ritrovi un po’ ovunque: in miniatura dietro ai banconi dei bar frequentati da loro; dipinta su tele appese al muro della “cucina dei poveri”, uno storico locale nel porto in cui bazzicano camionisti, portuali dai colletti bianchi, lavoratori del pool e giocatori di carte; la trovi stampata anche sulle vetrate del bar di fronte alla stalla o porcile, come loro chiamano la sala adibita al reclutamento degli occasionali, per via di quei ballatoi da cui i preposti negoziano il numero di uomini necessario per i quattro turni giornalieri. Una legge nazionale degli anni Settanta stabilisce che “soltanto i lavoratori portuali riconosciuti hanno il diritto di svolgere il lavoro all’interno dell’area portuale”: è il cosiddetto pool di manodopera. Una parte di questi si reca al porcile ogni giorno e se non c’è abbastanza lavoro le eccedenze ricevono un timbro sul libretto che equivale all’indennità di disoccupazione. Al contrario, se c’è carenza di manodopera è possibile reclutare lavoratori non riconosciuti al di fuori del pool: in questi casi al porcile accorrono i pasman, avventizi senza riconoscimento, reclutati per il lavoro giornaliero in qualche banchina a patto che abbiano la carta d’identità belga.

Nella tarda mattinata i portuali del pool affollano i due bar di fronte alla sala chiamata, in un quartiere pieno di lavori in corso, circondato da edifici e grattacieli di recente costruzione. Indossano quasi tutti le divise arancioni e nere, con la scritta dietro la schiena Haven van Antwerpen. Mi affaccio in sala chiamata e poi entro in uno di quei bar, ma ogni volta pare di entrare in casa di uno sconosciuto senza chiedere il permesso. 

Dopo attimi d’incertezza e sguardi incrociati, supero la diffidenza di un tale di nome Kevin. Si esprime piuttosto bene in inglese, ha l’aria scanzonata e barcolla sullo sgabello, beve un sorso, fuma e fa l’occhiolino di continuo, dicendomi che quando si lavora in banchina ci vogliono venti occhi per gli altri e dieci per te stesso. Mi ci vuole un po’ di tempo per capire che quel continuo occhiolino in realtà è un tic e non una maniera di enfatizzare il suo discorso sui due momenti più rischiosi nella vita del portuale: quando inizia perché inesperto, e quando è talmente esperto da credere di non rischiare più niente. Uno di loro è morto di recente al terminal dell’acciaio per un incidente, dice, e sarebbe andato in pensione di lì a qualche mese. L’annuncio era appeso alla bacheca dentro al porcile.

D’un tratto Kevin inizia a parlare della disputa che in questo momento coinvolge i portuali spagnoli, in seguito alla procedura d’infrazione inviata dalla Commissione europea relativa all’organizzazione del lavoro nei porti e alla conseguente proposta di riforma presentata dal governo sulla liberalizzazione del lavoro portuale. Riforma proposta senza negoziazioni e respinta dal parlamento spagnolo lo scorso 16 marzo. Il ricatto economico che l’Europa rivolge alla Spagna si quantifica in una multa di quindici milioni di euro, con l’aggiunta di una penale giornaliera di centotrentaquattromila euro da pagare finché la riforma del lavoro portuale non verrà realizzata. La solidarietà è giunta dai porti di tutto il mondo, i sindacati spagnoli ed europei sono mobilitati e così, per evitare interruzioni, Maersk ha dirottato le portacontainer da Algeciras a Tangeri e da Barcellona a Fos, anche se a detta di Kevin i portuali francesi rifiutano di lavorare quelle navi.

Kevin ricorda che anche i porti belgi hanno dei conti in sospeso con l’Unione Europea, per ragioni simili a quelle che stanno preoccupando i portuali spagnoli. È una strategia portata avanti da anni, orientata verso la lenta ma graduale deregolamentazione del lavoro portuale da parte delle istituzioni europee, attraverso procedimenti che attaccano uno stato membro alla volta. Il Belgio è oggetto dal 2014 di un’infrazione avviata dalla Commissione a causa di quella legge che dagli anni Settanta regola l’organizzazione del lavoro portuale, incompatibile con i principi del trattato europeo sulla libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi, come in Spagna. Le forme di protezione dalle tensioni esterne cui questo tipo di lavoro è continuamente sottoposto sono concepite come “restrizioni” al libero mercato, ma è chiaro che per le istituzioni europee l’obiettivo è liberalizzare l’ultimo nodo che resta da sciogliere nella catena marittimo-logistica. Dopo mesi di negoziazioni, Kevin mi spiega che un compromesso è stato raggiunto nel 2016, quando le parti sociali hanno proposto una riforma da realizzare nel corso dei prossimi quattro anni. Ma la soluzione proposta deve ancora essere valutata e la procedura d’infrazione al Belgio non è stata ritirata formalmente. 

In altre parole si attende, conclude Kevin senza smettere di strizzare le palpebre dell’occhio destro. Con una mano porta il bicchiere alle labbra e con l’altra fa un cenno al barista per ordinarne altre due, poi riferendosi al discorso di prima aggiunge che se paghi in noccioline avrai in cambio scimmie. Ik ben een Havenarbeider! esclama infine sbattendo il palmo della mano sul bancone, quasi perdendo la pazienza all’improvviso. Nell’attesa che accada qualcosa, fuori inizia a piovere e Kevin continua a bere, finalmente acquietato, come se un deterrente tenesse a bada lui, e con lui la gente del porto, e con il porto l’intera città.

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