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Sotto attacco dell’Unione. Le liberalizzazioni europee viste dal porto di Anversa
di Andrea Bottalico
Il porto di Anversa è
situato al centro del cosiddetto range settentrionale che
parte da Le Havre e arriva ad Amburgo passando
per Rotterdam.
Appartenente alla regione del Delta del Reno e
della Schelda, dista circa cento chilometri dal Mare
del Nord, è proteso verso l’interno e, per chi proviene dal Mediterraneo, può
risultare ostile a prima vista, difficile da inquadrare a causa della sua
natura fluviale, con banchine e chiatte ormeggiate lungo i canali, ponti mobili
e chiuse che non agevolano l’orientamento e che rendono Anversa un’opera d’ingegneria
idraulica priva di montagne piuttosto che una città portuale qualunque. Le
navi, in particolare le portacontainer di grandi dimensioni, per entrare e
uscire sono condizionate dalla marea del fiume e dalla profondità del lungo
tratto che dall’estuario penetra fin dentro la Schelda occidentale.
Bisogna varcare una sorta di
confine, girovagare a vuoto per qualche settimana, osservare una mappa per
credere di aver capito qualcosa e infine ammettere di non aver capito ancora
niente. Fermandosi in un punto qualsiasi dei dodicimila ettari di area portuale
può capitare di ritrovarsi soli tra navi in transito, magazzini e depositi di
stoccaggio delle merci, di fronte a pareti di container accatastati che
sbarrano la vista da ogni lato, con la gola inaridita dalla puzza di aceto e il
timore di andare oltre quelle ciminiere in lontananza che cacciano fuoco a
intervalli costanti. Il fumo delle piattaforme di quattro raffinerie lungo il
corso d’acqua si mescola all’austero paesaggio fiammingo, alla foschia e al
fetore di gasolio proveniente dai siti di produzione delle compagnie chimiche.
Si cammina nel fango in certi tratti, lungo cigli di stradoni concepiti per gli
autoarticolati che ti passano di fianco rompendo il silenzio, smuovendo l’aria
e le pozzanghere. Altrimenti c’è la pista ciclabile, che è sempre meglio di
niente. Poi un treno appare dal nulla, come un’allucinazione tra le croci di
Sant’Andrea, attraversando lo stradone semideserto anticipato da lunghe sirene.
Aggirandomi al suo interno,
sono giunto alla conclusione che il problema non è cosa raccontare di questo
porto ma come raccontarlo: talvolta più guardi e meno vedi il profilo basso di
chi muove l’economia globalizzata da questo punto sulla mappa. Frasi ripetute
durante i convegni come one smooth flow e seamless
movement of goods nascondono ciò che soggiace dietro precisi modelli
di business: il più grande polo petrolchimico d’Europa, duecento milioni di
tonnellate di merce, tra queste dieci milioni di tonnellate d’acciaio e
prodotti in metallo, ottocentomila veicoli, dieci milioni di Teu movimentati
l’anno. Il porto di Anversa è un hub logistico
connesso all’hinterland europeo. Un buon cinquanta per cento del milione e tre
di tonnellate di zucchero esportato annualmente dall’Europa passa
per queste banchine. E poi la frutta, la carta, il legname, i beni di consumo,
le rinfuse liquide, i prodotti intermedi, manufatti, minerali, semilavorati,
agricoli, farmaceutici.
Al porto di Anversa “tutto è possibile”, come recita lo
slogan. È possibile che il flusso regolare e la circolazione di beni senza
soluzione di continuità declamati nei convegni siano interrotti da uno sciopero
che, come quel gioco che facevamo da bambini, paralizza tutto all’improvviso:
il vero terrore degli stakeholder.
È possibile che alle pale
eoliche, agli antichi mulini a vento e alla retorica sulla sostenibilità delle
multinazionali si affianchi la centrale di Doel, nei pressi del
confine con l’Olanda, a ridosso di un villaggio i cui abitanti sono
stati sgomberati per quei reattori così vicini alle loro case e per l’espansione
dell’area portuale verso nord-ovest, come mostra un documentario.
A causa della centrale, per i cittadini di Anversa è possibile
ottenere pillole di iodio gratis in farmacia, ma è possibile anche far finta di
niente, infischiarsene dell’esistenza di quella fortezza nel mezzo del porto
industriale solcato da stormi che gracchiano tra vaste aree desolate, in cui è
possibile giocare a golf con vista sulla centrale termonucleare.
In questo inverno che sembra
non finire mai la città dei diamanti resta a guardare dalla riva destra, finora
si è rivelata come qualcosa a metà strada tra le prime pagine dell’Austerlitz di Sebald e
una serie di bar portoghesi. Distesa a semicerchio lungo il fiume che
all’improvviso vira verso la foce, è congestionata dai camion che fanno la
spola attraverso le principali arterie stradali. I container impilati
accerchiano un’antica chiesetta nei pressi di un’area di stoccaggio sulla riva
destra del fiume, ma a ben vedere accerchiano me mentre mi aggiro nei dintorni
di banchine che attendono navi – e mai viceversa. Dalla posizione in cui mi
trovo riesco a scorgere Deurganckdock e le Gooseneck sulla
sponda opposta, quarantuno gru di banchina “a collo d’oca” del terminal
container dedicato di MSC, la seconda compagnia marittima più
importante al mondo, il cui armatore, originario di Sorrento, ha il quartier
generale in Svizzera – un paese senza mare.
Dopo la bancarotta della
coreana Hanjin, le fusioni e le acquisizioni, tre grandi alleanze
governano l’industria globale del container, formando di fatto un oligopolio. MSC è
alleata con il gruppo Maersk, la compagnia marittima leader su
scala globale, che nel 2016 ha chiuso con una perdita netta di
quasi due miliardi di dollari: un calo relativo della redditività che nasconde
la cifra assoluta di una crisi sistemica. L’aumento progressivo della
dimensione delle navi per rincorrere le economie di scala ha avuto come
conseguenza la sovraccapacità di stiva e il crollo dei noli, ragion per cui le
compagnie viaggiano in perdita e scaricano gli oneri lungo tutta la catena
logistica del trasporto.
La nave più grande entrata nel porto di Anversa finora
è stata la Zoe da oltre diciannovemila Teu della MSC,
accolta in pompa magna dagli osservatori entusiasti. Ma è sufficiente fare due
chiacchiere con quelli del ciclo operativo al terminal container di Deurganchdock,
che queste navi le lavorano, per rendersi conto di come stanno realmente le
cose. Le mega-navi impongono pressioni enormi, flessibilità e ritmi mai visti
prima, perché una nave ferma è una nave che non genera profitto e con
l’aumentare delle dimensioni sono diminuiti gli attracchi a parità di volumi.
Alla contrazione dei tempi va aggiunta la conseguente congestione del terminal
e dell’area retroportuale. Gli addetti ai lavori illustrano dati e classifiche
aggiornate sulle performance, ma in pochi accennano ai costi sociali
dell’industria marittimo-portuale. Un libro uscito di recente affronta queste
tematiche.
Di ritorno dalla riva destra
passo per la piazza centrale, davanti alla statua in bronzo di Meunier che
li rappresenta e che guarda verso la Schelda come se la
sfidasse. Molte cose sono cambiate per i lavoratori del porto di Anversa, gli
“organizzatori dell’improvvisazione” come diceva qualcuno. Quella statua la
ritrovi un po’ ovunque: in miniatura dietro ai banconi dei bar frequentati da
loro; dipinta su tele appese al muro della “cucina dei poveri”, uno storico
locale nel porto in cui bazzicano camionisti, portuali dai colletti bianchi,
lavoratori del pool e giocatori di carte; la trovi stampata
anche sulle vetrate del bar di fronte alla stalla o porcile, come loro chiamano
la sala adibita al reclutamento degli occasionali, per via di quei ballatoi da
cui i preposti negoziano il numero di uomini necessario per i quattro turni
giornalieri. Una legge nazionale degli anni Settanta stabilisce che “soltanto i
lavoratori portuali riconosciuti hanno il diritto di svolgere il lavoro
all’interno dell’area portuale”: è il cosiddetto pool di manodopera. Una parte
di questi si reca al porcile ogni giorno e se non c’è abbastanza lavoro le
eccedenze ricevono un timbro sul libretto che equivale all’indennità di
disoccupazione. Al contrario, se c’è carenza di manodopera è possibile
reclutare lavoratori non riconosciuti al di fuori del pool: in questi casi al
porcile accorrono i pasman, avventizi senza riconoscimento, reclutati
per il lavoro giornaliero in qualche banchina a patto che abbiano la carta
d’identità belga.
Nella tarda mattinata i
portuali del pool affollano i due bar di fronte alla sala chiamata, in un
quartiere pieno di lavori in corso, circondato da edifici e grattacieli di
recente costruzione. Indossano quasi tutti le divise arancioni e nere, con la
scritta dietro la schiena Haven van Antwerpen. Mi affaccio in sala
chiamata e poi entro in uno di quei bar, ma ogni volta pare di entrare in casa
di uno sconosciuto senza chiedere il permesso.
Dopo attimi d’incertezza e
sguardi incrociati, supero la diffidenza di un tale di nome Kevin.
Si esprime piuttosto bene in inglese, ha l’aria scanzonata e barcolla sullo
sgabello, beve un sorso, fuma e fa l’occhiolino di continuo, dicendomi che
quando si lavora in banchina ci vogliono venti occhi per gli altri e dieci per
te stesso. Mi ci vuole un po’ di tempo per capire che quel continuo occhiolino
in realtà è un tic e non una maniera di enfatizzare il suo discorso sui due
momenti più rischiosi nella vita del portuale: quando inizia perché inesperto,
e quando è talmente esperto da credere di non rischiare più niente. Uno di loro
è morto di recente al terminal dell’acciaio per un incidente, dice, e sarebbe
andato in pensione di lì a qualche mese. L’annuncio era appeso alla bacheca
dentro al porcile.
D’un tratto Kevin inizia a
parlare della disputa che in questo momento coinvolge i portuali spagnoli, in
seguito alla procedura d’infrazione inviata dalla Commissione europea relativa
all’organizzazione del lavoro nei porti e alla conseguente proposta di riforma
presentata dal governo sulla liberalizzazione del lavoro portuale. Riforma
proposta senza negoziazioni e respinta dal parlamento spagnolo lo scorso 16
marzo. Il ricatto economico che l’Europa rivolge alla Spagna si
quantifica in una multa di quindici milioni di euro, con l’aggiunta di una
penale giornaliera di centotrentaquattromila euro da pagare finché la riforma
del lavoro portuale non verrà realizzata. La solidarietà è giunta dai porti di
tutto il mondo, i sindacati spagnoli ed europei sono mobilitati e così, per
evitare interruzioni, Maersk ha dirottato le portacontainer da Algeciras a Tangeri e
da Barcellona a Fos, anche se a detta di Kevin i
portuali francesi rifiutano di lavorare quelle navi.
Kevin ricorda che anche i
porti belgi hanno dei conti in sospeso con l’Unione Europea, per ragioni
simili a quelle che stanno preoccupando i portuali spagnoli. È una strategia
portata avanti da anni, orientata verso la lenta ma graduale deregolamentazione
del lavoro portuale da parte delle istituzioni europee, attraverso procedimenti
che attaccano uno stato membro alla volta. Il Belgio è oggetto
dal 2014 di un’infrazione avviata dalla Commissione a causa di
quella legge che dagli anni Settanta regola l’organizzazione del lavoro
portuale, incompatibile con i principi del trattato europeo sulla libertà di
stabilimento e la libera prestazione di servizi, come in Spagna. Le
forme di protezione dalle tensioni esterne cui questo tipo di lavoro è
continuamente sottoposto sono concepite come “restrizioni” al libero mercato,
ma è chiaro che per le istituzioni europee l’obiettivo è liberalizzare l’ultimo
nodo che resta da sciogliere nella catena marittimo-logistica. Dopo mesi di
negoziazioni, Kevin mi spiega che un compromesso è stato raggiunto nel 2016,
quando le parti sociali hanno proposto una riforma da realizzare nel corso dei
prossimi quattro anni. Ma la soluzione proposta deve ancora essere valutata e
la procedura d’infrazione al Belgio non è stata ritirata formalmente.
In altre
parole si attende, conclude Kevin senza smettere di strizzare le palpebre
dell’occhio destro. Con una mano porta il bicchiere alle labbra e con l’altra
fa un cenno al barista per ordinarne altre due, poi riferendosi al discorso di
prima aggiunge che se paghi in noccioline avrai in cambio scimmie. Ik
ben een Havenarbeider! esclama infine sbattendo il palmo della mano
sul bancone, quasi perdendo la pazienza all’improvviso. Nell’attesa che accada
qualcosa, fuori inizia a piovere e Kevin continua a bere, finalmente
acquietato, come se un deterrente tenesse a bada lui, e con lui la gente del
porto, e con il porto l’intera città.
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