giovedì 17 agosto 2017

D. APPUNTI FERRAGOSTO : COSA PENSANO DI FARE A PIOMBINO ?

Questo articolo di Repubblica su Piombino ha proprio colpito 

la nostra attenzione e merita alcune domande chiare. 

Iniziamo con una domanda e poi ne prepareremo altre 

sempre riferite a questo progetto su Piombino.

Se pensano di riaprire l'altoforno dopo tre anni dalla chiusura 

perchè a Trieste - Servola ci è sempre stato detto che è una 

operazione che non si può fare ? C'è qualche tecnico o 

esperto disponibile a fornirci una risposta o una spiegazione. 

Sarebbe ottimale poter chiudere l'altoforno e dopo una 

messa a punto di tutti gli interventi necessari verificare 

l'nquinamento senza che operai e cittadini patiscano un 

pericolo che se non è imminente si svelerà nel tempo : come 

dichiara l'Azienda sanitaria ?



Piombino, viaggio nel passato


 "Vogliono riaprire l'altoforno"

«Dalla sala della nostra casa s'intravedeva l'altoforno, il babbo prendeva posto a capotavola per mangiare di spalle al mostro, non voleva vederlo. "Almeno durante i pasti…", e sorrideva. Sapeva che la nostra famiglia mangiava proprio grazie al mostro». 


Lo scrittore Gordiano Lupi, figlio e nipote di operai, conosce bene il cuore di acciaio di Piombino. Quel "mostro" che dorme da tre anni, ma che potrebbe improvvisamente risvegliarsi. 

Perché la riaccensione dell'altoforno è una delle carte che il colosso siderurgico indiano Jindal gioca sul tavolo della trattativa per acquisire la fabbrica ex-Lucchini, che oggi si chiama Aferpi, è nelle mani di un imprenditore algerino e vive con i suoi duemila operai altre giornate esiziali.

Il ritorno alla colata di acciaio è solo un'ipotesi, ma è bastato evocarla per scuotere l'anima della città, combattuta tra la speranza di recuperare una cultura industriale ultracentenaria pilastro, prima della crisi, dell'economia del territorio (dalla Ferriera Perseveranza che nel 1866 impiegava settanta detenuti del carcere locale, alla privatizzazione dell'Ilva nel 1992 con i 38 giorni di sciopero per scongiurare la chiusura dell'altoforno, agli anni del declino), e l'inquietudine per i rischi ambientali. 

Perché nell'immaginario degli italiani, soprattutto dopo le vicende di Taranto, l'altoforno significa inquinamento pesante. E non bastano le rassicurazioni di chi conosce le nuove tecnologie della produzione siderurgica a ciclo integrale, che in altri Paesi (l'esperienza della Thyssen a Duisburg, ad esempio) ne hanno ridotto al minimo l'impatto. 

Insomma, il dilemma tra lavoro e salute che in questi anni nel nostro Paese ingaggia l'opinione pubblica, la politica, il sindacato e l'imprenditoria, senza ancora la ricetta che salvaguardi tutti gli interessi in campo. 

«Da quando l'altoforno si è fermato, tre anni fa – ci dice Lupi – Piombino è come una città divisa. L'aria è più pulita, il turismo è in ripresa. Ma ci sono anche le famiglie a casa senza lavoro». E sono in molti a ricordare le lacrime dei quaranta operai della squadra spegnimento, quando una mattina di aprile del 2014 la fumata bianca della ciminiera annunciò lo stop dell'altoforno.
Lo stabilimento Aferpi oggi è fermo. Silenzioso. 

Il tycoon algerino Issad Rebrab si era presentato nel 2014 con un progetto da un miliardo di euro, comprensivo del rilancio dell'acciaieria attraverso la costruzione di un forno elettrico e della diversificazione nell'agroindustriale e nella logistica, senza poi mantenere le promesse. 

I circa 2.200 operai ogni giorno entrano in fabbrica solo grazie agli ammortizzatori sociali (garantiti fino a tutto il 2018) e senza molto lavoro da svolgere. E il futuro fa paura. A inizio luglio il governo ha dato l'aut aut a Rebrab, con la firma di un addendum in base al quale se entro agosto non si rimetteranno in moto i laminatoi e se prima di ottobre non verrà trovato un partner industriale (che, a questo punto, sarebbe praticamente il nuovo dominus dell'acciaieria), si procederà alla risoluzione del contratto.
Le aziende papabili per subentrare a Rebrab sono la British Steel, l'austriaca Voestalpine, la Danieli e, soprattutto, Jindal. 

Il gruppo indiano, uscito sconfitto dal "duello" per l'Ilva di Taranto, sposterebbe su Piombino il suo progetto di caposaldo nel mercato europeo, dove attualmente non ha alcun impianto. Schivando così i dazi sulle importazioni siderurgiche minacciati dalla Ue. All'interno di questo piano è spuntata l'idea di riaccendere l'altoforno, anche perché l'acciaio di migliore qualità (ad esempio per i binari dell'alta velocità, una delle "specialità" storiche di Piombino) è tradizionalmente prodotto con il ciclo integrale. 

«È più di una suggestione», spiega il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, che nei giorni scorsi ha incontrato i rappresentanti di Jindal. 

E anche i sindacati non escludono l'opzione: «Tecnicamente è fattibile, le strutture dell'altoforno ci sono ancora – dice Graziano Martinelli della Rsu, operaio nella fabbrica da una vita -. Certo, bisognerà ripensare il dislocamento dell'impianto che ora è troppo a ridosso della città».


Così a ridosso che negli anni d'oro dell'acciaieria, quando si raggiunse il record di 7.800 caschi gialli, le donne del Cotone, il quartiere operaio, prima di stendere i panni controllavano da dove tirava il vento per evitare di vederseli ricoperti dallo "spolverino", il pulviscolo liberato dall'impianto. «"Annusa questo odore", mi diceva mio nonno – ha scritto Lupi in Calcio e acciaio –. 

"Quale odore nonno? Sento solo puzza di carbone…" rispondevo. "Non dire così. Usa la fantasia e ti verranno in mente i sogni della gente che lavora. I nostri sogni"». I sogni e gli incubi con i quali Piombino continua a convivere

1 commento:

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