Questo articolo di Repubblica su Piombino ha proprio colpito
la nostra attenzione e merita alcune domande chiare.
Iniziamo con una domanda e poi ne prepareremo altre
sempre riferite a questo progetto su Piombino.
Se pensano di riaprire l'altoforno dopo tre anni dalla chiusura
perchè a Trieste - Servola ci è sempre stato detto che è una
operazione che non si può fare ? C'è qualche tecnico o
esperto disponibile a fornirci una risposta o una spiegazione.
Sarebbe ottimale poter chiudere l'altoforno e dopo una
messa a punto di tutti gli interventi necessari verificare
l'nquinamento senza che operai e cittadini patiscano un
pericolo che se non è imminente si svelerà nel tempo : come
Piombino, viaggio nel
passato
"Vogliono riaprire l'altoforno"
«Dalla sala della nostra
casa s'intravedeva l'altoforno, il babbo prendeva posto a capotavola per
mangiare di spalle al mostro, non voleva vederlo. "Almeno durante i
pasti…", e sorrideva. Sapeva che la nostra famiglia mangiava proprio
grazie al mostro».
Lo scrittore Gordiano Lupi, figlio e nipote di operai,
conosce bene il cuore di acciaio di Piombino. Quel "mostro" che dorme
da tre anni, ma che potrebbe improvvisamente risvegliarsi.
Perché la
riaccensione dell'altoforno è una delle carte che il colosso siderurgico
indiano Jindal gioca sul tavolo della trattativa per acquisire la fabbrica
ex-Lucchini, che oggi si chiama Aferpi, è nelle mani di un imprenditore
algerino e vive con i suoi duemila operai altre giornate esiziali.
Il ritorno alla colata di
acciaio è solo un'ipotesi, ma è bastato evocarla per scuotere l'anima della
città, combattuta tra la speranza di recuperare una cultura industriale
ultracentenaria pilastro, prima della crisi, dell'economia del territorio
(dalla Ferriera Perseveranza che nel 1866 impiegava settanta detenuti del
carcere locale, alla privatizzazione dell'Ilva nel 1992 con i 38 giorni di
sciopero per scongiurare la chiusura dell'altoforno, agli anni del declino), e
l'inquietudine per i rischi ambientali.
Perché nell'immaginario degli italiani,
soprattutto dopo le vicende di Taranto, l'altoforno significa inquinamento
pesante. E non bastano le rassicurazioni di chi conosce le nuove tecnologie
della produzione siderurgica a ciclo integrale, che in altri Paesi
(l'esperienza della Thyssen a Duisburg, ad esempio) ne hanno ridotto al minimo
l'impatto.
Insomma, il dilemma tra lavoro e salute che in questi anni nel
nostro Paese ingaggia l'opinione pubblica, la politica, il sindacato e
l'imprenditoria, senza ancora la ricetta che salvaguardi tutti gli interessi in
campo.
«Da quando l'altoforno si è fermato, tre anni fa – ci dice Lupi –
Piombino è come una città divisa. L'aria è più pulita, il turismo è in ripresa.
Ma ci sono anche le famiglie a casa senza lavoro». E sono in molti a ricordare
le lacrime dei quaranta operai della squadra spegnimento, quando una mattina di
aprile del 2014 la fumata bianca della ciminiera annunciò lo stop
dell'altoforno.
Lo stabilimento Aferpi
oggi è fermo. Silenzioso.
Il tycoon algerino Issad Rebrab si era presentato nel
2014 con un progetto da un miliardo di euro, comprensivo del rilancio
dell'acciaieria attraverso la costruzione di un forno elettrico e della
diversificazione nell'agroindustriale e nella logistica, senza poi mantenere le
promesse.
I circa 2.200 operai ogni giorno entrano in fabbrica solo grazie agli
ammortizzatori sociali (garantiti fino a tutto il 2018) e senza molto lavoro da
svolgere. E il futuro fa paura. A inizio luglio il governo ha dato l'aut aut a
Rebrab, con la firma di un addendum in base al quale se entro agosto non si
rimetteranno in moto i laminatoi e se prima di ottobre non verrà trovato un
partner industriale (che, a questo punto, sarebbe praticamente il nuovo dominus
dell'acciaieria), si procederà alla risoluzione del contratto.
Le aziende papabili per
subentrare a Rebrab sono la British Steel, l'austriaca Voestalpine, la Danieli
e, soprattutto, Jindal.
Il gruppo indiano, uscito sconfitto dal
"duello" per l'Ilva di Taranto, sposterebbe su Piombino il suo
progetto di caposaldo nel mercato europeo, dove attualmente non ha alcun
impianto. Schivando così i dazi sulle importazioni siderurgiche minacciati
dalla Ue. All'interno di questo piano è spuntata l'idea di riaccendere l'altoforno,
anche perché l'acciaio di migliore qualità (ad esempio per i binari dell'alta
velocità, una delle "specialità" storiche di Piombino) è
tradizionalmente prodotto con il ciclo integrale.
«È più di una suggestione»,
spiega il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, che nei giorni scorsi
ha incontrato i rappresentanti di Jindal.
E anche i sindacati non escludono
l'opzione: «Tecnicamente è fattibile, le strutture dell'altoforno ci sono
ancora – dice Graziano Martinelli della Rsu, operaio nella fabbrica da una vita
-. Certo, bisognerà ripensare il dislocamento dell'impianto che ora è troppo a
ridosso della città».
Così a ridosso che negli
anni d'oro dell'acciaieria, quando si raggiunse il record di 7.800 caschi
gialli, le donne del Cotone, il quartiere operaio, prima di stendere i panni
controllavano da dove tirava il vento per evitare di vederseli ricoperti dallo
"spolverino", il pulviscolo liberato dall'impianto. «"Annusa
questo odore", mi diceva mio nonno – ha scritto Lupi in Calcio e acciaio
–.
"Quale odore nonno? Sento solo puzza di carbone…" rispondevo.
"Non dire così. Usa la fantasia e ti verranno in mente i sogni della gente
che lavora. I nostri sogni"». I sogni e gli incubi con i quali Piombino
continua a convivere
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