Partiamo da un commento sui tempi che sono stati necessari per
La comunità portuale e gli
spedizionieri attendevano da 23 anni il decreto attuativo e non hanno mai
smesso di sollecitare i rappresentanti politici cittadini affinchè
promuovessero nelle opportune sedi la sua approvazione. La sua vicenda si è
disgraziatamente intrecciata con quella della sdemanializzazione di parte del
Porto Vecchio e questo ha creato molta confusione ed un ritardo in entrambe le
questioni, dannosissimo per la città ed il porto.
Vanno ricordate tutte le perplessità sull’utilità del
porto franco e le critiche sul mantenimento dello stesso.
Per troppo tempo si è
voluto dimostrare l’indimostrabile e cioè che il regime di porto franco non
fosse utile, in modo da poterlo eliminare totalmente o almeno dalle aree del
Porto Vecchio, per poi poterle assegnare alla città. Il trasferimento del
regime di porto franco dai depositi storici del vecchio scalo, inutilizzabili
per le operazioni portuali, ad aree portuali e retro portuali funzionalmente
collegate al porto è una soluzione forse formalmente non perfetta, ma che
arriva allo scopo.
Quali sono a tuo parere le condizioni che hanno aiutato
il raggiungimento di questo obiettivo in questa forma ?
Questa soluzione sarebbe
rimasta puramente teorica senza due ulteriori passaggi: la nomina di Zeno
D’Agostino a commissario dell’Autorità Portuale prima e presidente
dell’’Autorità di Sistema Portuale dopo e l’istituzione, appunto, dell’Autorità
di Sistema Portuale con la legge del 2016. Pensate cosa sarebbe successo se
avessimo avuto un’autorità portuale unica con il porto di Venezia, o se invece di una persona
competente come l’attuale presidente avessimo avuto una persona totalmente
inesperta ?
Se spetta a noi rispondere a questa tua domanda
possiamo dirti che , come succede sempre in città, si sarebbe continuato a
discuterne e magari ci sarebbe stata una ulteriore serie di convegni dedicati
al tema. Convegni che sono da sempre una iattura per Trieste. Ma qual è il nodo
principale, il fatto importante contenuto nel decreto attuativo ?
Anche se non stanzia
neanche un centesimo di euro e non dà alle imprese alcuna possibilità di pagare
meno imposte, il decreto attuativo ha un’importanza enorme, perché fissa in
modo chiaro chi ha il potere di gestire, amministrare e promuovere il regime di
porto franco. Il vuoto creatosi nel 1994 e, per alcuni aspetti, già con il
passaggio dell’amministrazione civile del Territorio Libero di Trieste allo
stato italiano, si colma e, direi, stracolma !
Perché definire il soggetto che amministra il porto
franco è così importante ?
Spesso si confonde il
porto franco con una zona franca oppure con un paradiso fiscale: non è né
l’una, né l’altro. La sua unicità nell’Unione Europea lo rende difficile da
capire a chi non ha approfondito la legislazione che ne è alla base da più di
300 anni. Pur essendo territorio dell’Unione Europea, è doganalmente posto al
di fuori dell’Unione Europea. Questo, in un mondo globalizzato e
informatizzato, non è un limite, ma un vantaggio ! Facciamo alcuni esempi. Una
società turca rifornisce di parti di ricambio le imprese automobilistiche europee,
che hanno bisogno di ricevere i ricambi in massimo 48 ore: avendo il proprio magazzino al porto franco
di Trieste, questa società può contemporaneamente mantenere la proprietà della
merce, controllare il proprio magazzino, pagare il dazio d’importazione solo
quando spedisce la merce a destinazione (tra l’altro dopo 180 giorni) e
consegnare i ricambi in 24 ore.
Paradossalmente se il
porto franco fosse in un territorio al di fuori dell’Unione Europea non avrebbe
lo stesso valore per gli investitori, perché non darebbe accesso diretto al
mercato europeo. Ma andiamo oltre nel ragionamento.
Molto frequentemente viene
citato il caso di una fabbrica di scarpe che nel periodo dell’amministrazione
alleata lavorava in regime di porto franco; oggi, considerando il costo della
manodopera italiana, credo che sia molto difficile che un imprenditore trovi
conveniente fare un’attività di questo genere a Trieste. Ma ci sono spesso
altre motivazioni, che vanno oltre al puro costo di produzione: una società
cinese decide di commercializzare in Cina scarpe “Made in Italy” , ma la suola
è marocchina, la tomaia è egiziana ed i lacci sono serbi: le materie prime possono essere introdotte in
porto franco senza pagare il dazio, e attraverso una lavorazione che
attribuisca un valore aggiunto al prodotto finale sufficiente ad attribuirne
l’origine italiana, la società cinese ha la sua scarpa fatta in Italia, pur non avendo mai anticipato
dazi e IVA all’importazione. Solo un porto franco incastonato in territorio
italiano può garantire questo beneficio. E tra l’altro solamente sotto la
vigilanza della Dogana nazionale, che deve certificare l’origine italiana del
prodotto finito.
Questi due esempi sono chiari ma non rispondono alla
nostra precedente domanda che ti riproponiamo. Perché definire il soggetto che
amministra il porto franco è così importante ?
In questi ultimi 23 anni
non era possibile nemmeno proporre agli imprenditori un’attività di questo tipo.
In mancanza di un responsabile della procedura di autorizzazione delle attività
di lavorazione industriale, la Dogana normalmente respingeva le richieste. Quando un tribunale civile si è espresso, l’esistenza
del regime di porto franco è sempre stata confermata, ma con costi e tempi tali da far fuggire qualsiasi
imprenditore. Ora la procedura è chiara,
il responsabile è l’Autorità di Sistema portuale, che ha anche il potere di
individuare un’area dove fare questa attività e di gestire il regime di porto
franco su quell’area, a garanzia del rispetto delle regole doganali europee.
E dopo il decreto attuativo quali saranno i prossimi
passaggi ?
Ora tocca a noi ad
immaginare quali sono le attività che meglio possono usufruire del regime di
porto franco e a trovare gli imprenditori che decidano di farlo. Certamente, se
ci fossero anche degli ulteriori incentivi fiscali sul reddito d’impresa e sul
reddito dei lavoratori per le imprese insediate al porto di Trieste, sarebbe
molto più facile portarvi idee imprenditoriali e capitali freschi. Credo che
una fiscalità ridotta, ampiamente giustificata dal livello delle imposte in
Austria e Slovenia, avrebbe la forza di catalizzare gli investimenti di quanti sono interessati alle attività
produttive e logistiche nella parte produttiva del porto, sia di quanti possono
contribuire alla rinascita del
Porto Vecchio.
Nota aggiuntiva da IL PICCOLO del 20 agosto 2017
La fabbrica di scarpe Lucky shoes
Testo
Mille scarpe al giorno da spedire in USA
Da alcune dichiarazioni pubblicate sul New York Times nel 1970 e riportate da Il Piccolo del 20 agosto 2017, da parte di Thomas A McCann presidente dell'impresa calzaturiera Lucky shoes company: "Nel 1949 aprii la prima fabbrica italiana di calzature per il mercato americano. Da quel m omento la fabbrica di scarpe del Porto Franco, situato nell'attuale magazzino 26 ha contato più di 250 impiegati. Si parla di una produzione di circa 1000 paia di scarpe al giorno: ballerine, sandali, sportive. Quasi la totalità delle calzature veniva esportato negli Usa. Il materiale maggiormente usato fu la rafia, fibra naturale ricavata dalle palme del Madagascar.
Perchè aprire una fabbrica di scarpe a Trieste che produce per il mercato americano? Albert Saitz, direttore della fabbrica, l'ha spiegato in un intervista del 1951. " Per questo posto (la sede della fabbrica nel magazzino 26) paghiamo 90 dollari, me3ntre negli Usa spenderemmo circa 2000 dollari per le stesse cose. In più non abbiamo problemi di trasporto poichè siamo già in porto. Ed essendo Porto Franco non c'è bisogno di alcuna licenza" Anche gli operai locali e la loro capacità di imparare sono stati positivamente valutati da Saitz: disse che questi capivano in una settimana ciò che agli americani sarebbe servito mesi per imparare.
Da alcune dichiarazioni pubblicate sul New York Times nel 1970 e riportate da Il Piccolo del 20 agosto 2017, da parte di Thomas A McCann presidente dell'impresa calzaturiera Lucky shoes company: "Nel 1949 aprii la prima fabbrica italiana di calzature per il mercato americano. Da quel m omento la fabbrica di scarpe del Porto Franco, situato nell'attuale magazzino 26 ha contato più di 250 impiegati. Si parla di una produzione di circa 1000 paia di scarpe al giorno: ballerine, sandali, sportive. Quasi la totalità delle calzature veniva esportato negli Usa. Il materiale maggiormente usato fu la rafia, fibra naturale ricavata dalle palme del Madagascar.
Perchè aprire una fabbrica di scarpe a Trieste che produce per il mercato americano? Albert Saitz, direttore della fabbrica, l'ha spiegato in un intervista del 1951. " Per questo posto (la sede della fabbrica nel magazzino 26) paghiamo 90 dollari, me3ntre negli Usa spenderemmo circa 2000 dollari per le stesse cose. In più non abbiamo problemi di trasporto poichè siamo già in porto. Ed essendo Porto Franco non c'è bisogno di alcuna licenza" Anche gli operai locali e la loro capacità di imparare sono stati positivamente valutati da Saitz: disse che questi capivano in una settimana ciò che agli americani sarebbe servito mesi per imparare.
(Dal The High Point Enterprise del 1951 citato da Il Piccolo del 20 agosto 2017
Chi xe l'analfabeta globale che ga scritto sta roba (non trovo un termine coretto per definirla...)?
RispondiEliminama come potete dire "Porto Franco incastonato nel territorio italiano" !?!?!?!? se neppure l'autorità portuale si permette di dirlo, usando l'assurda assunzione, che il Porto Libero di Trieste (che chiamano Porto Franco Internazionale) è territorio politico (?!?!?!) dello stato italiano pur di non dire esplicitamente che tutta la Zona A del TLT è TUTTORA in amministrazione provvisoria del Governo Italiano.
RispondiEliminaMa anche voi, siete interessanti e preparati, quando vi deciderete di accettare la verità e di parlare liberamente di PLT e TLT con i vantaggi fiscali derivanti?
Perchè negare l'evidenza?
RispondiEliminaNel decreto attuativo si parla ESPLICITAMENTE di sola amministrazione civile da parte del governo italiano su Trieste!