Oggi pubblichiamo la relazione del prof. Sergio Bologna che potete scaricare in formato PDF
Dalle cartine degli itinerari che si trovano sui siti delle
compagnie di navigazione è facile vedere come la logica delle navi giganti è
molto diversa da quella delle navi in servizio tra Asia ed Europa fino al 2008 circa.
L’itinerario non è più formato da un porto di partenza asiatico e da una serie
di porti intermedi, ciascuno dei quali collocato all’interno di determinati
bacini di traffico, come fossero delle tappe di un percorso che si concludeva
con diversi porti di destino europei.
Oggi si parte con una serie fittissima di toccate nei porti
cinesi per caricare più
merce possibile, si fa una toccata a Singapore o in Malesia
(Tanjung Pelepas o Port Kelang) in quanto porti di transhipment per il bacino
di merce del sud est asiatico, e poi si naviga senza soste verso l’Europa. La
sosta nel Mediterraneo è in un unico porto di transhipment e talvolta nemmeno
su quello, la nave gigante punta direttamente su un porto di destino, uno solo,
in Inghilterra o nel continente, per iniziare da lì il ritorno toccando una fitta
rete di porti sul range Le Havre-Amburgo e fare a ritroso lo stesso percorso
con la stessa logica. Poiché i traffici in genere sono sbilanciati e la
direzione eastbound ha meno carico, al ritorno ci può essere una toccata su un
porto del bacino del Golfo.
Nell’ipotesi che rimanga costante la struttura dei costi
operativi e dei costi portuali, per i nostri porti forse il limite massimo sono
le navi da 15.000 Teu.
Perché vengano impiegate navi più grandi occorre un forte
aumento dei volumi concentrati su alcuni porti. Non è un problema di
infrastrutture ma di dimensione del mercato. Alcuni sostengono però che navi
più grandi arriveranno per il semplice effetto “a cascata”, cioè per logiche
dovute alla mera logistica delle compagnie. Io continuo a credere invece che i
volumi contano di più, non conviene scalare un porto dove i volumi non
raggiungono determinate quantità. Nei prossini anni non avremo i tassi di
crescita che abbiamo conosciuto nel decennio 1998-2008, quando per lo shipping
si è parlato di “superciclo” Non è solo questione di rallentamento delle
economie dei BRIC, ma anche di dubbia efficacia delle politiche di stimolo
monetario. Il QE di Draghi ha bloccato la speculazione sui titoli di stato ma
non ha rilanciato (per ora) l’economia…
Le sofferenze delle banche italiane frenano la disponibilità
delle stesse a concedere prestiti, lo ha detto Draghi stesso alla commemorazione di Andreatta
a Bologna
(…) “in un contesto
in cui la domanda e la crescita ristagnano, da un lato le banche sono
riluttanti a investire e a concedere
prestiti, a prescindere dalle flebo delle banche centrali, e dall’altro le
famiglie e le imprese sono poco inclini a indebitarsi.”
(…) “Secondo un recente studio pubblicato su VoxEU.org, le
banche del continente avevano in pancia, a fine 2014, crediti di difficile riscossione pari a
circa 1,2 trilioni di euro, pari al 9 per cento del PIL dell’UE e più del
doppio del livello del 2009.”
da “lavoce.info”, 19.11.2015
Inevitabilmente la crescita italiana sarà lenta nei prossimi
anni, si dovranno scontare i postumi della crisi (25% di apparato produttivo
perduto, sofferenze bancarie, 150 vertenze aziendali non risolte con 200 mila
lavoratori a rischio…)
La finanza dello shipping assomiglia a quella del settore
immobiliare. Le banche hanno elargito generosamente
crediti alla costruzione di navi perché avevano in garanzia un bene materiale,
la nave. Quindi si è creata un’analoga bolla, che ha causato il fallimento di
centinaia di fondi (KG System tedesco) e ha messo in gravi difficoltà istituti
come HSH Nordbank, Royal Scotland Bank, Commerzbank….
A questo si aggiungono, come fattore distorsivo del mercato,
i generosi sussidi pubblici forniti alla cantieristica del Far East, sono state
costruite navi dotate dei dispositivi più sofisticati e vendute a prezzi
stracciati.
Il gigantismo navale è una conseguenza di questo. La sua
corsa non si arresta perché le vecchie istituzioni creditizie, in crisi, sono
state rimpiazzate in parte dal private equity ma soprattutto da banche pubbliche
cinesi, dalla finanza islamica o da fondi sovrani di paesi che hanno interesse
a finanziare la loro cantieristica.
Quello che preoccupa - più dei problemi creati dal
gigantismo navale - è la finanziarizzazione dello shipping, per cui la nave è
sempre meno uno strumento del commercio mondiale e sempre più un puro asset
finanziario. E’ una situazione che il grande economista marittimo Martin
Stopford ha descritto con la formula Trading
ships not cargo
Le banche molto esposte nel credito all’armamento cedono i
loro non performing loans a cosiddetti “fondi avvoltoio” che s’impadroniscono di
beni già svalutati e li cedono sul mercato dell’usato, in una spirale che Ted
Petropulos di Petrofin Research ha così definito:
But now it
is going to be a question of vulture eating vulture. Some aggressive funds are
now also trying to buy portfolios from the initial private equity investors. (da
“Lloyd’s List”, 30.10.2015)
Poiché è molto improbabile che la finanza cambi modus
operandi, dare una risposta alla domanda ‘quale sarà la frontiera estrema del gigantismo’
è molto difficile.
Pertanto dovremo imparare a navigare in acque sempre più
agitate. Come ha dimostrato Theo Notteboom, è dal 2011 che alla crescita del Pil
cinese non corrisponde più l’effetto ‘moltiplicatore’ nel traffico container.
Ciò è dovuto al fatto che la Cina sta spingendo meno l’export e più la domanda
interna, ma può essere dovuto anche a fenomeni di re-shoring. Ambedue sono
fenomeni ormai strutturali.
Un futuro meno incerto sembra ci riservi la tecnologia,
meglio, nella tecnologia ritroviamo l’antico rationale, ci sembra di muoverci su un terreno
che conosciamo meglio.
Parliamo allora di logistica e di economia della
connettività.
Anche su questo aspetto le compagnie marittime sono state
criticate, si è detto che hanno lasciato perdere i servizi door-to-door,
concentrandosi solo sul port-to-port, si è detto che offrono servizi sempre più
indifferenziati, si è detto che il loro modello di business è obsoleto.
Ma in concreto cos’è questa economia della connettività?
”Uno dei nostri camion è una miniera d’oro, una miniera
d’oro di dati, di informazioni. In un nostro modello Actros ci sono 100 milioni
di righe di codice software, sette volte di più che in un Boeing 787 e 2000
volte di più di un’app per IPhone. E‘ dotato di 400 sensori hi tech,
sull’albero di trasmissione, sui freni, sui pneumatici, sui fari, che raccolgono
informazioni su migliaia di processi e le trasmettono a terminali remoti che
sanno come utilizzarle, per la manutenzione, per le riparazioni, per la scelta
degli itinerari, per le assicurazioni ecc.”.
Fonte: 32mo Congresso tedesco di logistica (Berlino, 28-30
ottobre 2015) dalla presentazione del responsabile veicoli industriali e
autobus della Daimler Benz
Si tratta non solo di un diverso modello di business, si
tratta di ragionare secondo un diverso paradigma economico, che sta emergendo
anche grazie alla sharing economy e che investe in primo luogo la logistica. Le
compagnie marittime oggi agiscono ancora secondo modelli tradizionali (alleanze,
fusioni), che sembrano andare in direzione opposta, con la prospettiva di
esercitare pressioni al ribasso sui servizi portuali, sul settore terminalistico
e sul settore ferroviario (oltre che sulla forza lavoro in generale).
La domanda che ci poniamo oggi - prendendo spunto dal
problema del gigantismo navale – è la seguente: le compagnie marittime, che
nella storia anche recente hanno aperto la strada a tanti passaggi
rivoluzionari nella logistica, hanno perso la loro capacità d’innovare, di
trasformarsi?
Nella storia del capitalismo tante volte è stata la
regolazione a stimolare il cambiamento, ma purtroppo nel settore marittimo la
regolazione è debole, ha scarso potere coercitivo.
Nella storia del capitalismo sono state spesso le resistenze
di natura sociale, tecnica, politica ad un determinato processo che ne hanno determinato
il mutamento o l’arresto, con effetti positivi sull’innovazione.
La logica del sistema containerizzato ha interamente
soggiogato per decenni il settore portuale, era diventata quasi la ragione di
esistere dei porti marittimi. Con il gigantismo navale questa egemonia
“culturale” ha subito per la prima volta da 40 anni una battuta di arresto. Il
paradigma del container è stato per la prima volta messo in dubbio. Se a questa
sommiamo altre resistenze che si stanno manifestando, quelle di natura
ambientalista e quella, che man mano si fa più accentuata, della stessa forza
lavoro (la logistica sta diventando un settore ad alta conflittualità
sindacale) e se a queste resistenze sommiamo quelle derivanti dalle sempre più
complesse e frequenti cause di disruption della supply chain, come ci segnalano
le grandi società di assicurazione, dobbiamo concludere che le possibilità che
le compagnie marittime siano indotte a un ripensamento del loro modello di
business non sono poche.
Concludo dicendo che la critica al gigantismo navale e la
resistenza ad un suo incontrollato diffondersi non solo sono indispensabili ma
possono diventare anche, a mio avviso, un fattore di cambiamento e, in
definitiva, di innovazione.
Quindi occorre una volontà, un comportamento soggettivo, una
forzatura, a cui sono chiamati tutti gli attori della catena logistica, perché
– lo abbiamo visto – la crisi economica del 2008 e seguenti non è bastata a far
cambiare la testa dei governi, delle imprese e della cultura, com’era avvenuto
invece dopo il 1929.
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