lunedì 21 dicembre 2015

IL CONFINE DEI GIGANTI - LA RELAZIONE DI SERGIO BOLOGNA AL CONVEGNO

Di questo convegno organizzato da Federagenti abbiamo già illustrato l'argomento e i problemi che intendeva affrontare.

Oggi pubblichiamo la relazione del prof. Sergio Bologna che potete scaricare in formato PDF 




Dalle cartine degli itinerari che si trovano sui siti delle compagnie di navigazione è facile vedere come la logica delle navi giganti è molto diversa da quella delle navi in servizio tra Asia ed Europa fino al 2008 circa. L’itinerario non è più formato da un porto di partenza asiatico e da una serie di porti intermedi, ciascuno dei quali collocato all’interno di determinati bacini di traffico, come fossero delle tappe di un percorso che si concludeva con diversi porti di destino europei.
Oggi si parte con una serie fittissima di toccate nei porti cinesi per caricare più
merce possibile, si fa una toccata a Singapore o in Malesia (Tanjung Pelepas o Port Kelang) in quanto porti di transhipment per il bacino di merce del sud est asiatico, e poi si naviga senza soste verso l’Europa. La sosta nel Mediterraneo è in un unico porto di transhipment e talvolta nemmeno su quello, la nave gigante punta direttamente su un porto di destino, uno solo, in Inghilterra o nel continente, per iniziare da lì il ritorno toccando una fitta rete di porti sul range Le Havre-Amburgo e fare a ritroso lo stesso percorso con la stessa logica. Poiché i traffici in genere sono sbilanciati e la direzione eastbound ha meno carico, al ritorno ci può essere una toccata su un porto del bacino del Golfo.








Nell’ipotesi che rimanga costante la struttura dei costi operativi e dei costi portuali, per i nostri porti forse il limite massimo sono le navi da 15.000 Teu.
Perché vengano impiegate navi più grandi occorre un forte aumento dei volumi concentrati su alcuni porti. Non è un problema di infrastrutture ma di dimensione del mercato. Alcuni sostengono però che navi più grandi arriveranno per il semplice effetto “a cascata”, cioè per logiche dovute alla mera logistica delle compagnie. Io continuo a credere invece che i volumi contano di più, non conviene scalare un porto dove i volumi non raggiungono determinate quantità. Nei prossini anni non avremo i tassi di crescita che abbiamo conosciuto nel decennio 1998-2008, quando per lo shipping si è parlato di “superciclo” Non è solo questione di rallentamento delle economie dei BRIC, ma anche di dubbia efficacia delle politiche di stimolo monetario. Il QE di Draghi ha bloccato la speculazione sui titoli di stato ma non ha rilanciato (per ora) l’economia…






Le sofferenze delle banche italiane frenano la disponibilità delle stesse a concedere prestiti, lo ha detto  Draghi stesso alla commemorazione di Andreatta a Bologna
 (…) “in un contesto in cui la domanda e la crescita ristagnano, da un lato le banche sono riluttanti a  investire e a concedere prestiti, a prescindere dalle flebo delle banche centrali, e dall’altro le famiglie e le imprese sono poco inclini a indebitarsi.”
(…) “Secondo un recente studio pubblicato su VoxEU.org, le banche del continente avevano in pancia, a fine  2014, crediti di difficile riscossione pari a circa 1,2 trilioni di euro, pari al 9 per cento del PIL dell’UE e più del doppio del livello del 2009.”
da “lavoce.info”, 19.11.2015
Inevitabilmente la crescita italiana sarà lenta nei prossimi anni, si dovranno scontare i postumi della crisi (25% di apparato produttivo perduto, sofferenze bancarie, 150 vertenze aziendali non risolte con 200 mila lavoratori a rischio…)






La finanza dello shipping assomiglia a quella del settore immobiliare. Le banche hanno elargito  generosamente crediti alla costruzione di navi perché avevano in garanzia un bene materiale, la nave. Quindi si è creata un’analoga bolla, che ha causato il fallimento di centinaia di fondi (KG System tedesco) e ha messo in gravi difficoltà istituti come HSH Nordbank, Royal Scotland Bank, Commerzbank….
A questo si aggiungono, come fattore distorsivo del mercato, i generosi sussidi pubblici forniti alla cantieristica del Far East, sono state costruite navi dotate dei dispositivi più sofisticati e vendute a prezzi stracciati.
Il gigantismo navale è una conseguenza di questo. La sua corsa non si arresta perché le vecchie istituzioni creditizie, in crisi, sono state rimpiazzate in parte dal private equity ma soprattutto da banche pubbliche cinesi, dalla finanza islamica o da fondi sovrani di paesi che hanno interesse a finanziare la loro cantieristica.
Quello che preoccupa - più dei problemi creati dal gigantismo navale - è la finanziarizzazione dello shipping, per cui la nave è sempre meno uno strumento del commercio mondiale e sempre più un puro asset finanziario. E’ una situazione che il grande economista marittimo Martin Stopford ha descritto con la formula Trading ships not cargo
Le banche molto esposte nel credito all’armamento cedono i loro non performing loans a cosiddetti “fondi avvoltoio” che s’impadroniscono di beni già svalutati e li cedono sul mercato dell’usato, in una spirale che Ted Petropulos di Petrofin Research ha così definito:
But now it is going to be a question of vulture eating vulture. Some aggressive funds are now also trying to buy portfolios from the initial private equity investors. (da “Lloyd’s List”, 30.10.2015)
Poiché è molto improbabile che la finanza cambi modus operandi, dare una risposta alla domanda ‘quale sarà la frontiera estrema del gigantismo’ è molto difficile.
Pertanto dovremo imparare a navigare in acque sempre più agitate. Come ha dimostrato Theo Notteboom, è dal 2011 che alla crescita del Pil cinese non corrisponde più l’effetto ‘moltiplicatore’ nel traffico container. Ciò è dovuto al fatto che la Cina sta spingendo meno l’export e più la domanda interna, ma può essere dovuto anche a fenomeni di re-shoring. Ambedue sono fenomeni ormai strutturali.




Un futuro meno incerto sembra ci riservi la tecnologia, meglio, nella tecnologia ritroviamo l’antico  rationale, ci sembra di muoverci su un terreno che conosciamo meglio.
Parliamo allora di logistica e di economia della connettività.
Anche su questo aspetto le compagnie marittime sono state criticate, si è detto che hanno lasciato perdere i servizi door-to-door, concentrandosi solo sul port-to-port, si è detto che offrono servizi sempre più indifferenziati, si è detto che il loro modello di business è obsoleto.
Ma in concreto cos’è questa economia della connettività?
”Uno dei nostri camion è una miniera d’oro, una miniera d’oro di dati, di informazioni. In un nostro modello Actros ci sono 100 milioni di righe di codice software, sette volte di più che in un Boeing 787 e 2000 volte di più di un’app per IPhone. E‘ dotato di 400 sensori hi tech, sull’albero di trasmissione, sui freni, sui  pneumatici, sui fari, che raccolgono informazioni su migliaia di processi e le trasmettono a terminali remoti che sanno come utilizzarle, per la manutenzione, per le riparazioni, per la scelta degli itinerari, per le assicurazioni ecc.”.
Fonte: 32mo Congresso tedesco di logistica (Berlino, 28-30 ottobre 2015) dalla presentazione del responsabile veicoli industriali e autobus della Daimler Benz


Si tratta non solo di un diverso modello di business, si tratta di ragionare secondo un diverso paradigma economico, che sta emergendo anche grazie alla sharing economy e che investe in primo luogo la logistica. Le compagnie marittime oggi agiscono ancora secondo modelli tradizionali (alleanze, fusioni), che sembrano andare in direzione opposta, con la prospettiva di esercitare pressioni al ribasso sui servizi portuali, sul settore terminalistico e sul settore ferroviario (oltre che sulla forza lavoro in generale).
La domanda che ci poniamo oggi - prendendo spunto dal problema del gigantismo navale – è la seguente: le compagnie marittime, che nella storia anche recente hanno aperto la strada a tanti passaggi rivoluzionari nella logistica, hanno perso la loro capacità d’innovare, di trasformarsi?
Nella storia del capitalismo tante volte è stata la regolazione a stimolare il cambiamento, ma purtroppo nel settore marittimo la regolazione è debole, ha scarso potere coercitivo.
Nella storia del capitalismo sono state spesso le resistenze di natura sociale, tecnica, politica ad un  determinato processo che ne hanno determinato il mutamento o l’arresto, con effetti positivi sull’innovazione.
La logica del sistema containerizzato ha interamente soggiogato per decenni il settore portuale, era diventata quasi la ragione di esistere dei porti marittimi. Con il gigantismo navale questa egemonia “culturale” ha subito per la prima volta da 40 anni una battuta di arresto. Il paradigma del container è stato per la prima volta messo in dubbio. Se a questa sommiamo altre resistenze che si stanno manifestando, quelle di natura ambientalista e quella, che man mano si fa più accentuata, della stessa forza lavoro (la logistica sta diventando un settore ad alta conflittualità sindacale) e se a queste resistenze sommiamo quelle derivanti dalle sempre più complesse e frequenti cause di disruption della supply chain, come ci segnalano le grandi società di assicurazione, dobbiamo concludere che le possibilità che le compagnie marittime siano indotte a un ripensamento del loro modello di business non sono poche.
Concludo dicendo che la critica al gigantismo navale e la resistenza ad un suo incontrollato diffondersi non solo sono indispensabili ma possono diventare anche, a mio avviso, un fattore di cambiamento e, in definitiva, di innovazione.

Quindi occorre una volontà, un comportamento soggettivo, una forzatura, a cui sono chiamati tutti gli attori della catena logistica, perché – lo abbiamo visto – la crisi economica del 2008 e seguenti non è bastata a far cambiare la testa dei governi, delle imprese e della cultura, com’era avvenuto invece dopo il 1929.





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