lunedì 13 marzo 2017

UNA CITTA' E' IL SUO PORTO : DALLA STORIA AI GIORNI NOSTRI

«Funzioniamo come un grande negozio online di duty-free, importiamo da circa 80 Paesi compresa naturalmente l’Italia, immagazziniamo in porti franchi in Cina e grazie ai dazi più bassi il prezzo finale è conveniente per i consumatori” dichiarava al Corriere della Sera del 27 febbraio la signora Zhang Lei,  proprietaria della Kaola, società di e-commerce che tratta prodotti europei di fascia medio-alta.” Rispetto a un negozio fisico o anche all’e-commerce tradizionale che sopportano dazi doganali e IVA fino al 30-50%, i prodotti offerti con il cross-border sono gravati solo dell’11,9%. Alla fine, i consumatori del nostro negozio virtuale pagano quasi lo stesso prezzo degli europei, per gli stessi prodotti di buona qualità, questo è il nostro segreto». 


Chissà cosa ne avrebbe pensato l’imperatore Carlo VI, che 298 anni e qualche giorno prima aveva concesso la patente imperiale di porto franco alle città di Trieste e di Fiume ! Mi piace pensare che sarebbe rimasto colpito nel sapere che i cinesi sono disponibili a pagare l’11,9% di dazio, dal momento che i suoi sudditi potevano pagare già tre secoli fa solo “mezzo percento di Consolato, oltre che la solita gabella tollerabile, moderata secondo tariffa”. Certo, i milioni di consumatori dell’impero asburgico non potevano disporre di un’arma di acquisto di massa come internet e conseguentemente le franchigie concesse ai porti adriatici sarebbero alla fine risultate molto annacquate per i consumatori finali di Vienna, Budapest o Praga. Tuttavia l’intuizione l’aveva avuta !  



E ci avrebbe pensato sua figlia Maria Teresa, di cui quest’anno ricorre il trecentesimo genetliaco, a confermare la bontà dell’idea ed a svilupparla fino ad estremizzarla, determinando durante il suo lungo regno lo sviluppo del porto e della città di Trieste nei modi che oggi ben conosciamo.



Purtroppo sarebbe stato durante un altro lungo regno, quello di Francesco Giuseppe, che le sorti del porto franco di Trieste sarebbero state purtroppo invertite, con l’incorporazione nel 1891 della città nel territorio doganale austro-ungarico e con la conseguente riduzione del porto franco, che sarebbe da quel momento stato per sempre rinchiuso all’interno delle cinta murarie del porto.
Da quel momento, l’incalzante succedersi di eventi storici e l’avvicendarsi di varie bandiere sul palazzo comunale di Piazza  Grande non avrebbe però modificato in maniera così drastica le sorti del porto franco, che continuo ad esistere ed essere un’area extra doganale con tanti varchi, dai quali si sarebbe potuto uscire con della merce solamente pagando un dazio allo Stato che in quel momento la controllava.
Anche se l’Allegato VIII al Trattato di pace del secondo dopoguerra prevedeva che sulle merci importate attraverso il porto franco avrebbe dovuto essere imposto un dazio ridotto o, precisamente “such goods customs duties or charges other than those levied for services rendered”, si affrettava subito a precisare che “however, in respect of goods, imported through the Free Port for consumption within the Free Territory or exported from this Territory through the Free Port, appropriate legislation and regulations in force in the Free Territory shall be applied”, lasciando quindi all’autorità del Territorio Libero di fissare dazi appropriati per le merci importate e consumante all’interno del Territorio.

Chissà cosa ne avrebbe pensato Mrs.Kaoli, se avesse  potuto stabilire la sede della sua società di e-commerce al magazzino 26 del Punto Franco Nord.
Rimane un fatto chiaro e limpido: dal 1891 in poi non è stato mai possibile esercitare all’interno del porto franco un’attività di commercio al minuto. Detto in parole semplici: grazie a Fraz Joseph, né gli Austriaci, né gli Italiani regnicoli o repubblicani, né i Triestini, né gli Europei, né alcun altro hanno mai potuto fare la spesa al Porto di Trieste senza pagare il dazio e l’imposta sul valore aggiunto.
Di conseguenza l’attività di vendita al minuto che si svolge all’interno del bel palazzo di proprietà dell’Autorità Portuale che si affacciava fino allo scorso anno da una parte sul porto franco (sospeso) e dall’altra in Italia non ha mai, né mai potrà vendere le proprie merci in esenzione di dazio o di IVA.

Sul lato che affacciava in porto franco avrebbe teoricamente potuto svolgere attività di commercio all’ingrosso senza addebitare il dazio e l’IVA, ma appena i clienti avrebbero varcato la cinta di Largo Santos, avrebbero dovuto fare una delle due cose: o importare la merce (nel paese in cui sarebbero trovati a seconda dell’anno in cui avrebbero fatto l’acquisto: Austria-Ungheria, Italia, Territorio Libero di Trieste, Italia, Unione Europea), o emettere un documento di transito (fino al confine del medesimo paese), per poi pagare dazio ed IVA nel loro paese di destinazione.
Mi dispiace che questo dato di fatto distrugga parte della mitologia che si è creata attorno ad un regime, quello del porto franco, che mantiene tuttavia degli innegabili vantaggi sotto altri numerosi aspetti.


Tuttavia, fatta pulizia attorno a questo concetto, possiamo finalmente ragionare in termini corretti e protesi verso il futuro.  Al di là di quale sia la nostra bandiera, il porto franco di Trieste è un unicum giuridico che ha in sé già molti dei vantaggi previsti dalle zone franche e dalle zone economiche speciali; ma manca di un aspetto fondamentale che gli potrebbe permettere uno sviluppo che farebbe impallidire anche la signora Zhang Lei: le riduzioni sulla fiscalità diretta (imposte sui redditi) e sulla fiscalità indiretta (IVA e accise). Purtroppo la classe politica cittadina sembra non accorgersene, proprio mentre nelle aule parlamentari si discute delle zone economiche speciali sulla base di una proposta di legge di una deputata genovese.

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